domenica 17 gennaio 2021

Architarra

  ARCHITARRA

di Luigi Pentasuglia

  

  Il termine architarra - un neologismo che ingloba i termini 'archi' e 'chitarra' – è un'ideazione del musicologo Luigi Pentasuglia che l'ha introdotto per la prima volta in occasione della pubblicazione del metodo Il segreto di Paganini: tecnica comparata per violino e architarra (Diastema, Treviso 1997).  Si tratta di uno strumento che armonizza le caratteristiche organologiche della chitarra classica con l'accordatura per quinte degli strumenti ad arco. In ultima analisi, l'architarra è una piccola chitarra classica accordata per quinte come gli strumenti ad arco, munita di manico tastato e diapason 48 cm max[1]. In alternativa è possibile optare per il guitalele (diapason 43 cm c.a.), ovvero per la chitarra classica ½ (diapason 55 cm ca)[2]. L’architarra si accorda un'ottava sotto il violino, disponendo le seguenti corde centralmente alla tastiera:


·                     - VI corda della chitarra classica innalzata una terza minore: da Mi a Sol

·                     -    V corda della chitarra classica innalzata una quarta giusta: da La a Re

·                     -    III corda della chitarra classica innalzata una seconda maggiore da Sol a La

·                     -   II corda della chitarra classica innalzata una quarta giusta: da Si a Mi[3]



Come si suona

    L'architarra si suona come la normale chitarra classica: poggiato lo strumento sulla coscia sinistra, il piano di seduta deve garantire il giusto allineamento della testa al busto. Trattandosi di un strumento di dimensioni ridotte, è indispensabile l’uso del classico poggiapiede o del supporto da gamba o, se necessario, di entrambi. A fronte dei numerosi metodi per chitarra classica, corredati d’immagini esplicative sia della corretta postura delle mani che della modalità di articolazione delle dita, consiglio vivamente di accostarsi allo strumento sotto la supervisione di un qualificato insegnante di chitarra classica, che potrà, sul nascere, correggere i difetti d'impostazione e posturali, ovvero elargire consigli su aspetti specifici della prassi esecutiva chitarristica, come i legati tecnici e il barré.

 

I prodromi

    L'ibridazione, per così dire, tra strumenti a pizzico e ad arco muove i primi passi nel Medioevo con il fiedel, il precursore sia della vihuela che delle viole rinascimentali[4]. L'osmosi tra le due tipologie strumentali tocca l'apice nel Barocco con le trascrizioni autografe per liuto bachiane di opere destinate originariamente al violino e al violoncello[5]. È tuttavia nella prima metà del Settecento che assistiamo a un vero e proprio 'contagio' tra le due prassi esecutive: paradigmatico il caso delle Prime Lezioni Per Chitarra di Federico Moretti, che assimila le posizioni della chitarra a quelle del violoncello[6]. Un input destinato di lì a poco a sfociare in una sorta di apoteosi fusionale ‘stilistico-esecutiva’ tra chitarra e strumenti ad arco, che vede protagonisti una folta schiera di eccezionali compositori-interpreti del calibro di Sor, Giuliani, Legnani, Carulli, Molino, Zani de Ferranti, Magnien e, manco a dirlo, Paganini, che più di tutti seppe convogliare sul violino le personali competenze di chitarrista[7]. Ne aveva compreso appieno la portata Hector Berlioz che, in un celebre passo delle Memorie, così biasimava i violinisti dell’epoca: «passi ed arpeggi perfettamente eseguibili, dal momento che i chitarristi li eseguono [sul violino], sono dai violinisti dichiarati ineseguibili […] Il poco che i nostri giovani violinisti sanno in proposito, l'hanno imparato da soli dopo l'apparizione di Paganini»[8].


Il segreto di Paganini

    Un espediente ricorrente della narrazione paganiniana è la ‘scordatura’ del violino durante le improvvisazioni[9]. All’immane ricalcolo dei rapporti tra le corde richiesto in simili frangenti, opponiamo la tesi di un Paganini illusionista: accordando parzialmente il violino come la chitarra era in grado di replicare passaggi originariamente concepiti sulla chitarra senza alterare la diteggiatura della mano sinistra. Del resto, la consuetudine del grande violinista genovese d’innalzare la IV corda da Sol a Si bemolle gli consentiva, all’occorrenza, di disporre del rapporto di terza maggiore tra la IV e la III corda (Si bemolle-Re): ossia il rapporto tra la III e la II corda della chitarra (Sol-Si); gli bastava abbassare di un tono la II corda, da La a Sol, per disporre della successione intervallare di quarta giusta tra III e II corda (Re-Sol): ossia il rapporto tra la II e la I corda della chitarra (Si-Mi). Quanto all’inconveniente dell’intervallo ‘superstite’ di sesta tra la II e la I corda (Sol-Mi), era da lui superato istrionicamente con la boutade dell’improvvisa rottura del cantino. Se per un verso dobbiamo ai cronisti testimoni oculari i resoconti sulla ‘scordatura’ del violino, per altro lo stesso procedimento era di fatto applicato da Paganini alle composizioni per chitarra: è il caso del Minuetto n. 20 (Edizioni Zimmermann) che prevede l’accordatura della chitarra in viola d’amore, con la VI, la V e la I corda abbassati di un tono. Un caso all’epoca tutt’altro che isolato, anzi emblematicamente avallato dall’invenzione dell'arpeggione, una sorta di violoncello con tastiera e accordatura della chitarra, reso celebre dalla Sonata Arpeggione (D. 821) di Franz Schubert.




Una didattica comparata

    Non c’è dubbio che la formazione chitarristica di Paganini sia la precondizione delle straordinarie potenzialità virtuosistiche della sua mano sinistra. È quanto trapela dalle sue dichiarazioni di usare il violino solo nei concerti, mentre per lo studio si sarebbe servito di un violino di grandi dimensioni per acquisire elasticità e forza nelle dita. Nulla di più improbabile: un violino di grandi dimensioni non è forse una viola? Paradossalmente è proprio l’attrazione per le grandi viole a tradire il retaggio chitarristico paganiniano. Lo si evince dalla lettera del violinista inglese Charles Severn che dichiara di aver suonato a Londra «allo stesso doppio leggìo con lui, quando eseguì le sue variazioni per il ‘tenor’, uno strumento così grande che il suo braccio era tutto steso diritto». Un’affermazione ripresa da Maurice W. Riley che, nella sua Storia della viola, affibbia alla viola ‘tenor’ di Paganini un diapason di almeno 45,7 cm[10]. In altri termini, all’incirca lo stesso diapason da noi previsto per l’architarra. Con lo studio dell’architarra s’intende, infatti, rinnovare una propedeutica strumentale comparata da troppo tempo negata – se non proprio rinnegata! – dagli strumentisti ad arco, succubi, loro malgrado, di un miopismo metodologico romanticamente fuorviato dall’idea di una matrice ‘diabolica’ del virtuosismo paganiniano!


La mente olografica

    Lo studio dell’architarra favorisce l’azione sinergica di due distinte disposizioni sensoriali nell’approccio esecutivo: 1) quella visivo-motoria, propria dei chitarristi, abituati prima a guardare la posizione delle dita sulla tastiera e poi ad ascoltare le note eseguite; 2) quella uditivo-tattile, propria degli strumentisti ad arco che, diversamente, prima intonano mentalmente le note e poi le eseguono sulla base della percezione tattile delle dita senza l'ausilio della vista. Più che di antiteticità nel metodo utilizzato sarebbe più consono parlare di 'complementarietà' tra queste due disposizioni. Un avallo ci è offerto dalla teoria dell'apprendimento del neurofisiologo austriaco Karl Pribram (1919-2015) secondo cui il cervello processa i dati sensoriali alla stregua di ologrammi, immagini fotografiche tridimensionali prodotte dall'interferenza di pattern d'onda emessi da un oggetto, convogliate da un raggio laser[11]. Estendendo il concetto allo strumentista ad arco, che si esercita in parallelo sull'architarra, di conseguenza il suo cervello amalgamerà le percezioni 'uditivo/tattili' afferenti la propria competenza di strumentista ad arco, alle percezioni 'visivo/motorie' afferenti la propria competenza di 'chitarrista'. Il risultato: una qualità, si fa per dire, 'tridimensionale' dell'oggetto di studio di cui, appunto, l’ologramma funge da metafora.

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Note

1.   Il diapason è la distanza dei due punti d'appoggio delle corde disposti tra il capotasto e le sellette del ponticello.

2.  Il diapason più esteso della chitarra ½ può richiedere l'uso del 'capotasto' meccanico per chitarra classica.

3.  La stessa accordatura è valida per i violisti che, leggendo in chiave di contralto, realizzeranno uno scarto d'intonazione una quinta sopra l'accordatura dello strumento, ovvero una quarta sotto quella effettiva.

4.  G. Tintori, Gli strumenti musicali, UTET, Torino, 1971, Tomo II, p. 692.

5. Paolo Chierici, Le opere per liuto di Bach, 'Il Fronimo', luglio 1980, n. 32, p. 26; Philip J. Bone, The Guitar and Mandolin (Second Edition, enlarged), Schott & Co. Ltd., Londra 1954, p. 136; Bruno Tonazzi, L'arte di suonare la chitarra o cetra di Francesco Geminiani, in “Il Fronimo”, ottobre 1972, n.1, p. 13.

6.  Federico Moretti, Prime Lezioni Per Chitarra, ms., s.l., s.d., Biblioteca del Conservatorio, Milano; Federico Moretti, Prinicpj per la chitarra a sei corde, Napoli 1804; Franco Poselli, Federico Moretti e il suo ruolo nella storia della chitarra, 'Il Fronimo', luglio 1973, n. 4, p. 13.

7.  Cenni Biografici intorno a Mauro Giuliano, comunicati per la parte storica dal pregevole Sig. Filippo Isnardi, peritissimo della scienza musicale.'L'Omnibus', foglio periodico IV, 3 (sabato 30 aprile 1836; F. Heck, Giuliani in Italia, 'Il Fronimo', luglio 1974, n. 8, p. 16; Brian Jeffery, L'attività concertistica di Fernando Sor, 'Il Fronimo', gennaio 1974, n° 6, p. 6; Dell'Ara, Ferdinando Carulli, 'Il Fronimo', luglio 1979, n. 28, p. 7; A. Codignola, Paganini intimo, Genova 1925, p. 488; Cenni biografici intorno a Mauro Giuliani comunicati per la parte storica dal pregevole Signor: Filippo Isnardi, peritissimo della Scienza Musicale, periodico napoletano 'L'Omnibus', 30 aprile 1836; Danilo Prefumo, Paganini e la chitarra, 'Il Fronimo', aprile 1978, n. 23; Danilo Prefumo, L'attività concertistica di Luigi Legnani nei resoconti dei giornali dell'epoca, 'Il Fronimo', 1982, n. 41, p. 9.

8.  The Memoirs of Hector Berlioz, trad. di David Cairns, London, V. Gollancz, 1969, p. 224; Hector Berlioz, Memorie, vol. 2, Secondo viaggio in Germania, Lettera V; Mario Dell'Ara, Hector Berlioz, 'Il Fronimo', gennaio 1977, n. 18, p. 11; Mario Dall'Ara, Hector Berlioz Il signore che suona la chitarra francese, 'Il Fronimo”, gennaio 1977, n. 18, p. 11; Danilo Prefumo, Paganini e la chitarra, 'Il Fronimo', aprile 1978, n. 23.

9.  Arnaldo Bonaventura, Niccolò Paganini, Formiggini, Genova, 1915, p. 36; Arnaldo Bonaventura, Gli autografi musicali di N. Paganini, 'La bibliofilia', anno XII, dispensa 1a, aprile 1910, Leo Olschki Firenze; Bruno Tonazzi, Gli interessi chitarristici di Paganini, 'Il Fronimo”, aprile 1982, n. 39, p. 8.

10.   Maurice W. Riley, Storia della viola, Ed. Sansoni, Firenze 1983, p. 244.

11.   Karl H. Pribram, I linguaggi del cervello, Franco Angeli, Milano 1976, p. 195; Stanislav Grof, La mente olotropica, Ed. Red, Como 1996, p. 15.


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