domenica 17 gennaio 2021

L'Architarra: fondamenti chitarristici del violinismo paganiniano

  


Luigi Pentasuglia

Seminario sul tema

L’ArchitarrA

Fondamenti chitarristici

del virtuosismo violinistico di Niccolò Paganini





Officina Musicale 52

‘String Summer Academy’

Brienza (Pz) 4 Agosto 2019

-o-

‘Fabbrica Del Suono’

Violin &  Cello Academy
Gravina di Puglia (Ba) 8 Settembre 2019


preemessa



Sono trascorsi più di vent’anni da quando pubblicai per le edizioni Diastema di Treviso il metodo Il segreto di Paganini. Mutazioni: tecnica comparata per violino e architarra (1997). Dell’architarra (da ‘archi + chitarra’), uno strumento d’ispirazione paganiniana da me concepito con finalità preminentemente pedagogiche, ci occuperemo più avanti dopo aver focalizzato alcune tappe storiche inerenti le concordanze organologiche, stilistiche ed esecutive tra strumenti a pizzico e strumenti ad arco.




Breve excursus storico
Come la filogenesi risale la linea evolutiva degli organismi vegetali e animali dalla loro comparsa sulla Terra a oggi, nei tempi decisamente più contenuti scanditi dai mutamenti culturali che hanno contraddistinto il Medioevo, l’Umanesimo, il Rinascimento, il Barocco e il Romanticismo, anche la storia degli strumenti musicali può, a suo modo, declinarsi in termini ‘evolutivi’. È il caso dell’antico fiedel assurto a capostipite di strumenti tanto variegati da rendere pressoché impossibile districarsi, in epoca medievale, tra «nomi uguali che indicano strumenti diversi e nomi diversi che indicano strumenti uguali» (G. Tintori). 



Nelle Cantigas de Santa Maria (XIII secolo) di Alfonso el Sabio re di Castiglia e León (1252-1284) - una raccolta di 427 canzoni monodiche in lode alla Vergine – è riprodotto uno strumento a pizzico con manico tastato armato di 4 corde: se da un lato le fasce laterali e la cassa anticipano la forma della vihuela a pizzico rinascimentale, la parentela con la famiglia delle viole trapela invece dal cavigliere a testa di animale mostruoso, per certi versi precursore del riccio della famiglia degli archi. La transizione del ‘riccio’ dalla vihuela medievale alla classe degli archi è apprezzabile in questa bella incisione di Anonimo Francese del secolo XVI.




Con un ampio balzo temporale in avanti, giungiamo in epoca barocca, quando l’affinità tra strumenti ad arco e a pizzico sembra culminare in due opere autografe di J.S. Bach per liuto catalogate come BWV 995 e BWV 1006a. Si tratta di trascrizioni, rispettivamente, della Suite in do minore per violoncello (BWV 1011) e della Suite in mi maggiore (BWV 1006) per violino: dunque, quanto basta ad avallare la tesi che i compositori barocchi assimilavano lo stile di scrittura degli archi a quello degli strumenti a pizzico. Lo conferma The art of Playing the Guitar or Cittra (1770) del violinista lucchese Francesco Geminiani (1678-1762): una raccolta di sonate da eseguire a libera scelta per ‘cetra e basso’ o per ‘violino e basso’. La partitura di ciascuna sonata è infatti suddivisa in tre ‘portate’: la prima contiene la parte del violino; la seconda (in alternativa al violino) l’intavolatura della cetra; la terza il basso continuo. 


Il primo metodo per chitarra
Un caso emblematico di ‘pedagogia comparata’ tra chitarra e strumenti ad arco è il primo metodo per chitarra redatto a Napoli dal violoncellista Federico Moretti nella seconda metà del ‘700. Si tratta delle Prime Lezioni Per Chitarra così suddivise: 1) le ‘Lezioni in mezza posizione’ (o ‘mezza manica) gravitano nell’ambito della I posizione chitarristica; le ‘Lezioni in prima posizione’ gravitano tra la I e II posizione chitarristica; le ‘Lezioni al primo manico’ tra la I e III posizione chitarristica; le ‘Lezioni al secondo manico’ tra la IV e V posizione chitarristica; le ‘Lezioni al terzo manico’ partono dalla VI posizione chitarristica. In ultima analisi, Moretti trasferisce alla chitarra le posizioni ‘diatoniche’ del violoncello a lui congeniali.

La mente ‘olografica’
Secondo il musicologo Thomas F. Heck, all’inizio dell’Ottocento la chitarra classica si rivela «più debitrice alla famiglia del violino, in termini di notazione e di dettagli costruttivi, che alla chitarra barocca. E non è certo un fatto accidentale che Giuliani e Sor fossero abili suonatori di strumenti ad arco in orchestra prima di passare alla chitarra. Prima furono musicisti, poi chitarristi. Qui sta un’importante ragione del loro successo». Un’affermazione tendenziosa che avalla la congettura per cui in Sor e Giuliani le rispettive competenze di strumentisti ad arco sovrastino, in quanto a potenzialità musicali, le rispettive competenze chitarristiche: si rinvanga così l’atavico pregiudizio emblematicamente espresso dal violinista Arnaldo Bonaventura che, agli inizi del secolo scorso, giudicava appunto la chitarra «uno strumento inferiore destinato per la natura sua ad accompagnare il canto popolaresco che a tradurre, come strumento di concerto, le manifestazioni dell’arte più alta e più nobile».
A fungere da contraltare provvede la nostra tesi incardinata nella teoria ‘neurofisiologico-analogica’ dell’eminente neurochirurgo e psichiatra austriaco Karl Pribram (1919-2015). A suo dire il cervello umano processa la realtà alla stregua di un ologramma che sfrutta il fenomeno dell’interferenza ottica di una sorgente laser per ottenere tutte le informazioni di luce emessa da un oggetto necessarie alla sua rappresentazione tridimensionale. 



Analogamente le immagini elaborate dalla nostra mente sono per Pribram il risultato dell’interazione multisensoriale (visivo, uditivo, motorio, propriocettivo, ecc.) di quanto costruiamo di volta in volta nella nostra mente. Ne deduciamo che, lo studio in parallelo della chitarra - o dell’architarra - e di uno strumento ad arco, ha il vantaggio psicologico rinforzante di sommare due ordini di specificità sensoriali: quelle ‘visivo-motorie’ della chitarra e quelle ‘uditivo-propriocettive’ degli archi. Ed è appunto ciò che il nostro metodo si prefigge: attualizzare quanto già i grandi chitarristi e strumentisti ad arco di primo Ottocento sperimentarono in modo del tutto spontaneo.

Una disavventura affatto propizia!
Di tal ‘impatto multisensoriale’ ne ho fatto incidentalmente esperienza quando, ancora molto giovane, frequentavo il corso di viola presso il Conservatorio di Castelfranco Veneto. Durante una lezione di esercitazione orchestrale dedicata a un concerto di Vivaldi per chitarra solista (originale per mandolino) e archi, in qualità di violista di fila mi capitò - forse perché emotivamente catturato dallo strumento solista a me caro - di confondere la tastiera della viola con quella della chitarra: in altri termini, leggevo lo spartito in chiave di violino piuttosto che di contralto, mentre la mano sinistra agiva come sul manico della chitarra, per giunta in dissonanza rispetto alla parte eseguita correttamente dal mio collega di leggio. Ad esempio, scambiavo il primo Re sulla quarta corda della viola con il Do terzo tasto/quinta corda della chitarra: due note che si scrivono allo stesso modo in chiavi diverse! Turbato dall’accaduto, il giorno seguente decisi di abbandonare lo studio della viola, ciò che provocò per contraccolpo un profondo desiderio d’indagare il personale trascorso di chitarrista/violista, ampliando gli orizzonti conoscitivi con ricerche e sperimentazioni pratiche oggi oggetto di trattazione.




Il caso ‘Paganini’
Non è dunque un caso che la convergenza tra la chitarra e gli strumenti ad arco sia giunta a piena maturazione proprio all’inizio dell’Ottocento, quando la letteratura per chitarra si amplia grazie al contributo di una folta schiera di ‘compositori-interpreti’ del calibro, sia dei già citati Sor e Giuliani, sia di Legnani, Carulli, Molino, Zani de Ferranti, Magnien e Paganini, tutti - non a caso! - dediti sia alla pratica sia della chitarra che di uno strumento ad arco. L’eclettismo che è alla base della loro formazione strumentale – a rigor del vero mai da essi esplicitata! - fa presumere che furono straordinari interpreti inconsapevoli delle ragioni stesse della loro straordinarietà! Tra costoro fa tuttavia eccezione: Niccolò Paganini (Genova 1782 – Nizza 1840) che, vale la pena rammentarlo, iniziò l’apprendimento musicale applicandosi contemporaneamente al violino e al mandolino, due strumenti - non per nulla! - accomunati dalla medesima accordatura. 


In verità, la peculiarità virtuosistica di Paganini è da ricercarsi soprattutto nell’aver egli preferito alla tecnica del mandolino quella della chitarra, come dimostrano l’adozione sul violino, sia del pizzicato corrispondente al legato chitarristico, sia dello stile cromatico altresì consono alla chitarra. Ne aveva compreso appieno la portata il compositore - nonché chitarrista! - Hector Berlioz che, in un celebre passo delle sue Memorie, così biasimava i violinisti dell’epoca: «passi ed arpeggi perfettamente eseguibili, dal momento che i chitarristi li eseguono, sono dai violinisti dichiarati ineseguibili […] Il poco che i nostri giovani violinisti sanno in proposito, l’hanno imparato da soli dopo l’apparizione di Paganini».

La questione della ‘scordatura’
Nei primi dell’Ottocento era prassi diffusa la scordatura strumentale, un espediente tecnico che Paganini utilizzò abilmente sul violino per sbalordire i critici e i violinisti della sua epoca. Come ha opportunamente rilevato il musicologo e violinista Arnaldo Bonaventura: «il dare al violino un’accordatura diversa da quella consueta permetteva a Paganini di eseguire passi altrimenti ineseguibili […] Ognuno comprende di fronte a quali difficoltà si dovesse trovare l’artista, costretto a calcolare mentalmente i rapporti intercedenti tra le varie corde nel loro disaccordo […] ed eseguire ciò nonostante i difficili passi, rapidamente, con sicurezza, senza incertezze e senza esitazione. Qui veramente, se il fatto è vero è del meraviglioso o, per meglio dire, del miracoloso, come ben si può immaginare chiunque conosca il violino o abbia pratica del suo meccanismo».
In verità, la ‘scordatura’ violinistica paganiniana rappresenta piuttosto un escamotage improvvisativo che contrasta con la pratica ‘scritta’ della ‘scordatura’ vera e propria. In altri termini, la scordatura effettuata all’impronta da Paganini travalica la consuetudine epocale, ma che pure egli rispetta nelle composizioni per chitarra, come nel caso del Minuetto n° 28 (o n° 20 - Ed. Zimmermann) che prevede la chitarra accordata in ‘Viola d’Amore’: Re [VI corda], Sol [V corda], re [IV corda], sol [III corda], si [II corda]re [I corda].

Non dimentichiamo infine che, tra le sperimentazioni ottocentesche riguardanti lo scambio delle accordature strumentali, un posto di primo piano spetta all’arpeggione, una sorta di violoncello accordato come la chitarra. Inventato da J.G. Staufer nel 1823, raggiungerà la massima notorietà con la celebre Sonata in la minore per arpeggione e pianoforte (D. 821) di Franz Schubert.

Paganini l’illusionista
Sulla scordatura violinistica di Paganini la tesi che avanziamo è che egli sostituisse la normale accordatura dello strumento con quella parziale della chitarra: ecco dunque che, in simili frangenti, pur agendo da violinista Paganini pensava di fatto da chitarrista! Già il frequente ricorso all’accordatura del violino ‘Sib [VI corda] - mib [III corda] ’  / ‘sib [II corda] - mib [I corda]’, gli consentiva di eseguire vere e proprie trasposizioni di passi bicordali preparati sulla chitarra, ovvero sfruttando gli intervalli di quarta tipici di questo strumento (esempio 1). Ma è soprattutto l’espediente d’innalzare la quarta corda da Sol a Si bemolle a  stimolare il nostro interesse: infatti, se la IV corda in Sib forma con la III un intervallo di 3a minore, abbassando di un tono la II corda (da La a Sol) otteniamo i rapporti intercedenti tra le prime tre corde della chitarra ‘Sol-Si-Mi’ (sul violino ‘Sib-Re-Sol’); la presenza ‘scomoda’ dell’intervallo di 6a tra la prima e la seconda corda, era quindi da Paganini superata con la geniale spettacolare trovata dell’ ‘incidentale’ rottura del cantino (esempio 2).


La ‘contro viola’ di Paganini
Paganini sosteneva di usare il violino solo durante i concerti, mentre per lo studio si sarebbe servito di un violino di grandi dimensioni, che gli avrebbe conferito maggiore elasticità e forza nelle dita. Che egli provasse una forte attrazione per le viole di grande dimensioni è testimoniato dalla singolare richiesta all’amico genovese Luigi Guglielmo Germi: «Se mi occorresse la tua grandissima viola per servirmene a Londra me la inoltreresti? Detto strumento lo nominerei ‘contro viola’». Il violinista inglese Charles Severn dichiara di aver effettivamente suonato in quell’occasione accanto a Paganini: «Ho suonato – egli scrive – allo stesso doppio leggio con lui, quando eseguì le variazioni per il ‘tenor’, uno strumento così grande che il suo braccio era tutto diritto».
Se per un verso non è azzardato assimilare le proporzioni della ‘viola/tenor’ paganiniano a quelle della chitarra ottocentesca, decisamente più ridotte rispetto a quelle attuali, per altro l’attaccamento ‘morboso’ di Paganini verso le proprie composizioni per chitarra, così come la decisione di non esibirsi mai in concerto con tale strumento, tradiscono l’intenzione di occultare la fonte stessa del ‘trucco’ violinistico. Di fronte a un tal rischio dovette presumibilmente trovarsi quando, nel 1836, fu in procinto di promuovere un concerto a Torino in duo con il chitarrista-violinista Luigi Rinaldo Legnani – detto il ‘Paganini della chitarra’! - il cui spirito emulativo del grande violinista genovese è attestato in particolar modo dai suoi 36 Capricci op. 20 per chitarra. Il fatto che tal concerto non ebbe luogo, rafforza il nostro convincimento che, dal confronto tra le rispettive tecniche strumentali, un accorto osservatore ne avrebbe potuto rilevare l’intrinseca complementarietà e interscambiabilità, dissolvendo di converso l’alone di mistero che aleggiava sui due impareggiabili interpreti.

 ‘Comunicazione sulle prime idee della scala’
Paganini non fondò una sua scuola violinistica né impartì lezioni regolari, eccezion fatta per il violoncellista napoletano Gaetano Ciandelli e il violinista genovese Camillo Sivori che, dal canto suo, dichiara di aver ricevuto dal grande virtuoso genovese, all’età di soli sette anni, una misteriosa ‘comunicazione’ sulle ‘prime idee della scala’. A rammentarlo è sempre Arnaldo Bonaventura, il convinto detrattore della chitarra che, paradossalmente, senza volerlo, c’instrada sui presupposti chitarristici del virtuosismo violinistico paganiniano. Lo fa menzionando il metodo rivoluzionario introdotto agli inizi del secolo scorso dal boemo Sévcik (1852 –1934), basato sullo studio anticipato da parte dei violinisti in erba della ‘scala cromatica’ in cui, egli scrive,

«le note son tutte all'ugual distanza di un semitono; onde anche le dita vengono a trovarsi tutte accanto fra loro e nella medesima posizione su tutte le corde, ciò che facilita immensamente l'intonazione e l'acquisto dell'agilità e, in generale, il possesso della tecnica, come dimostrano i grandi risultati ottenuti dai giovanissimi e già celebrati suoi allievi. Non potrebbe darsi pertanto che il segreto di Niccolò Paganini consistesse in qualche cosa di simile? Forse anch'egli aveva immaginato e introdotto nella tecnica dello strumento e nel metodo innovazioni radicali e profonde, per le quali lo studio veniva ad essere notevolmente agevolato e che non volle o non poté rivelare».

L'ArchitarrA

Si fa così concreta l’ipotesi che, tra i procedimenti tecnici introdotti ‘in proprio’ da Paganini nell’arte violinistica, ci sia l’utilizzo mirato del ‘principe degli strumenti cromatici’: la chitarra appunto! Ed è confidando in tale intuizione che ho redatto Il segreto di PaganiniMutazioni: tecnica comparata per violino e architarra; un metodo che potremmo definire ‘cromatico’ in senso lato, giacché le coppie di varianti di diteggiatura della mano sinistra proposte in ciascun esercizio conservano inalterati i rapporti intervallari tra le dita della mano sinistra, di volta in volta optando tra una delle seguenti quattro modalità:

1)                  Semitono (tra 1° e 2° dito della mano sinistra) / Tono (tra 2° e 3° ) / Tono’ (tra 3° e 4° );
2)                  (tra 1°-2° m.s.) / S (tra 2°-3° m.s.) / T’ (tra 3°-4° m.s.);
3)                  (tra 1°-2° m.s.) / (tra 2°-3° m.s.) / S   (tra 3°-4° m.s.);
4)                  (tra 1°-2° m.s.) /  (tra 2°-3° m.s.) / ’ (tra 3°-4° m.s.).

Come dicevamo ogni esercizio contempla due varianti di diteggiatura ‘complementari’ o ‘speculari’ esposte in prima posizione, quindi con cambiamenti di posizione: nei cambiamenti di posizione l’ultimo dito di ogni variante funge sempre da riferimento negli spostamenti sia scendenti che discendenti, come si evince dal seguente esempio: 


In appendice sono riportati gli incipit di tutti gli esercizi corredati delle diteggiatura della mano destra necessarie per la loro esecuzione sull’architarra. Una novità assoluta è la corrispondenza delle dita della mano sinistra 123 e 4, rispettivamente al pollice, indice, medio e anulare della mano destra. Si ottiene così il duplice vantaggio di sincronizzare le due mani e favorire il giusto orientamento della mano destra rispetto alle corde. Raccomandiamo che per un corretto approccio all’architarra da parte degli strumentisti ad arco è necessario che pongano la massima attenzione sull’impostazione della mano destra, ciò che richiede il concorso di un maestro di chitarra classica che, dal canto suo, potrà familiarizzare con il ‘metodo’ usufruendo della versione per chitarra disponibile on-line:

Le 8 dita. Tecnica comparata per chitarra: (http://www.pentasuglia.it/member/le-otto-dita/).




Conclusione
In una lettera al suo segretario Paganini dichiarava: «Io ho il mio metodo personale e secondo questo dispongo le mie composizioni. Per suonare quelle degli altri bisognerebbe che le accomodassi alla mia maniera: faccio più presto a scrivere un pezzo nel quale lascio piena libertà al mio sentimento musicale». È il caso dell’Harold en Italie di Berlioz, una composizione orchestrale ispirata alla saga autobiografica di Byron Chide Harold’s Piligrinage, contenente numerosi passi per viola solista dall’autore dedicati a Paganini. Declinando l’invito, quest’ultimo disapprovò le lunghe pause nella parte della viola dichiarando alquanto istrionicamente: «Qui non c’è abbastanza da fare per me. Io dovrei suonare tutto il tempo»! Un’affermazione, questa, a conferma di come Paganini avesse dato il meglio di sé destreggiandosi con la mano sinistra soprattutto improvvisando nell’ambito delle sue stesse composizioni: nell’accingersi a eseguire le composizioni altrui egli ‘mostrava la corda’. In definitiva, le mie deduzioni, più che togliere credibilità alle capacità strumentali di Paganini, vogliono, semmai, restituire verosimiglianza a quel complesso di ciarlatanate attribuito al violinista genovese. Sotto un profilo musicologicamente più corretto, infatti, le deliranti affermazioni, fatte qua e là da Paganini nel suo vagabondare, appaiono piuttosto metafore della sua complessa personalità musicale. In altri termini, egli non si sarebbe mai espresso in malafede, quanto piuttosto avrebbe celato il suo segreto come l'illusionista cela la realtà effettiva: suscitando nello spettatore l'impressione di trovarsi a contatto con la realtà di un puro violinista, egli agiva solo apparentemente da violinista, mentre pensava decisamente da chitarrista e, pertanto, in maniera fuorviante per gli ascoltatori.



Riferimenti bibliografici:

-          Luigi PentasugliaIl segreto di Paganini. Mutazioni: tecnica comparata per violino (o viola) e architarra <http://www.pentasuglia.it/member/il-segreto-di-paganini-metodo-per-violino-e-viola/>

-          Luigi PentasugliaLe 8 dita. Tecnica comparata per chitarra (versione per chitarra del metodo Il segreto di Paganini. Mutazioni: tecnica comparata per violino (o viola) e architarra)

-          Luigi PentasugliaIl segreto di Paganini. Fondamenti chitarristici del virtuosismo violinistico di Niccolò Paganini. <http://www.pentasuglia.it/member/il-segreto-di-paganini/>







L'enigma della 'Isleworth Mona Lisa' di Leonardo da Vinci

  

ISLEWORTH MONA LISA


IL MISTERO DELL'INCOMPIUTA DI LEONARDO DA VINCI


di

 Luigi Pentasuglia

                                                                                



           La Gioconda fu iniziata da Leonardo intorno al 1503/04, a Firenze, dove fu notata da Raffaello che ne trasse uno schizzo, quasi certamente a memoria, come lascia intendere la diversa altezza del parapetto con le due colonne che lo sormontano. Non si può tuttavia escludere che per quel suo bozzetto Raffaello si sia ispirato a una copia autografa incompiuta: la cosiddetta Isleworth Mona Lisa acquistata all’inizio del secolo scorso dal collezionista Hugh Blaker che la custodì nel suo studio nel sobborgo londinese di Isleworth.

            Un’ipotesi questa supportata, tra l'altro, proprio dalla presenza delle colonne sul parapetto inesistenti nella Gioconda. Il fatto poi che ritragga una dama molto più giovane, ha indotto gli esperti a valutare la Isleworth Mona Lisa anteriore di almeno dieci anni la versione definitiva, ovvero, come noi supponiamo, che l'opera abbia invece funto da modello alla Gioconda.
             La nostra ipotesi fa affidamento sullo stato d’incompletezza della Isleworth Mona Lisa per ciò che concerne lo sfondo paesaggistico, nonostante il volto della dama appare ormai completato e, paradossalmente, indiscutibilmente più avvenente di quello della Gioconda. Un volto, a dire il vero, assai somigliante a quello della Madonna del gruppo di Sant’Anna (Louvre), ciò che alimenta il mistero dell'identità della dama. 
          La risposta potrebbe forse leggersi tra le righe del saggio freudiano Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci in cui si cita un sogno infantile del genio vinciano incluso negli appunti sul ‘Volo degli avvoltoi’. Scrive Leonardo:

                                            Questo scriver sì distintamente del nibio par che sia mio destino,
                                            perché nella prima recordatione della mia infantia e' mi parea che,
                                           essendo in culla,  un nibio venissi a me e mi aprissi la bocca con la sua coda
                                           e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra.


          
          Freud rimarca che il contorno del drappo azzurro della Vergine richiama la silhouette di un avvoltoio in posizione supina, con la punta della coda che lambisce la bocca del bambino Gesù, cioè esattamente come nel ricordo infantile di Leonardo! Se dunque Leonardo si è in quel dipinto proiettato idealmente nel piccolo Gesù, perché non avrebbe dovuto effigiare la Madonna con le sembianze di sua madre Caterina, ossia le stesse della Isleworth Mona Lisa?




            Certo è che Leonardo tratta il gruppo di Sant’Anna alla stregua di una matrioska: Sant’Anna tiene sulle ginocchia la Madonna che, a sua volta, imbraccia Gesù bambino. È dunque lecito supporre che, nell’economia simbolica del dipinto, la Vergine simboleggia il liquido amniotico, essendo quest’ultimo avvalorato dal colore azzurro e dalla forma d’avvoltoio del mantello, un animale - rammenta nello stesso saggio Freud - che nell’antico Egitto esprimeva appunto l’idea della maternità.
            Che Leonardo nutrisse una vera e propria ossessione per il feto e l'habitat intrauterino è testimoniato dalla dovizie di schizzi sull’argomento. Emblematico un famoso passo incluso nel Trattato della Pittura di cui forniamo la sintesi:
                      «Tirato dalla mia voglia di vedere le varie forme fatte dalla artifiziosa natura,
                        ragiratomi infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una caverna.
                        Piegato le mie rene in arco e ferma la stanca mano sopra il ginocchio
                        feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia, e spesso piegandomi in qua e in là
                        per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa,  subito si destarono in me due cose,
                        paura e desiderio, paura per la oscura spilonca; desiderio, per vedere se là entro fusse
                        alcuna miracolosa cosa».
            Dunque, la posizione fetale assunta ad hoc da Leonardo fa della caverna la metafora dell’utero materno; sicché ciò che l’artista anela percepire è, letteralmente, la sensazione epidermica delle vibrazioni sonore prodotte dai flutti del mare (come si evince dall’espressione ragiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli), vibrazioni che agiscono meccanicamente sull’intera sua superficie corporea come lo stampo forgia il calco in esso contenuto.
            Per avere un’idea più precisa dello stampo e del calco fetale, propongo la seguente versione tridimensionale in argilla di un celebre disegno di Leonardo. Si può osservare che delle due porzioni della placenta quella di sinistra riporta l’impronta del feto, il suo stampo amniotico - o ‘doppio amniotico’ come amo definirlo - che immagineremo solidificato. Ne consegue che il feto vive all’interno della sua stessa immagine tridimensionale che è in grado di assecondarlo plasticamente in ogni sua ben che minima movenza. 




             Ed è proprio all’idea di ‘doppio amniotico’ che pare rinviare uno strano dettaglio della Isleworth Mona Lisa. L’individuiamo immediatamente sopra la strada tortuosa, nel rigoglioso lembo di terra che si riflette nel sottostante specchio d’acqua. In realtà, a una più attenta osservazione, ci si accorge che il contorno superiore di tale particolare ricalca il profilo di un feto in posizione supina, di cui si distinguono al centro le dita di una mano (un indizio messo lì a bella posta!); ne consegue che il riflesso nell'acqua evoca lo stampo fetale impresso nel liquido amniotico.



               È dunque a questo punto che, verosimilmente, Leonardo decide d'interrompere la Mona Lisa Isleworth per dedicarsi alla realizzazione ex novo della Gioconda di cui ha ormai chiara la strategia simbolica:
                                   la Gioconda avrà infatti connotati autoreferenziali:
                                   la fronte e gli occhi saranno i suoi;
                                   il naso, la bocca e il mento di mamma Caterina.
            In ultima analisi, la celeberrima dama in loggia incarna il testamento spirituale del genio vinciano o, più in generale, la metafora delle origini ancestrali dell'umanità verso cui ogni essere è inconsciamente attratto, quasi sospinto da una forza trascendente che tutto produce e riassorbe. Per saperne di più:

Luigi Pentasuglia,

I volti della Gioconda. Monna Tao: le radici orientali del templarismo
Edizioni Basileus, Matera 2016
(disponibile anche on-line in formato e-Pub)






sabato 21 novembre 2020

ArtEretica. Quinto capitolo

 

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L’imprinting umano: dall’alchimia alla scienza

di Luigi Pentasuglia

 

Con questo capitolo si chiude il primo ciclo di ‘ArtEretica’ dedicato all’analisi di alcune opere di Leonardo da Vinci ispirate all’episodio lucano della ‘Visitazione’. Nel secondo capitolo si è insistito sulla presa di coscienza del Battista nel sesto mese di gestazione in coincidenza con la comparsa della vernice caseosa, una coincidenza, questa, da San Luca interpretata in termini, per così dire alchimistici, ma che vale la pena indagare su basi scientifiche.

 


Sappiamo che la vernice caseosa che ricopre l’intera superficie corporea fetale alla stregua di una muta subacquea, se da un lato preserva il feto dall’azione macerante del liquido amniotico, dall’altro gli consente di percepire tattilmente lo ‘stampo’ o ‘doppio amniotico’ in cui è immerso.

 


La percezione tattile del ‘doppio amniotico’ da parte del feto dipende dalla precoce maturazione, già a partire dal quinto mese di gestazione, della parte più arcaica dell’orecchio interno: l’apparato vestibolare che comprende l’integratore somatico preposto al controllo delle sensazioni sia tattili che posturali.

 


Dunque, quanto basta per fissare tracce mnestiche del vissuto intrauterino di cui, un residuo è forse una particolare forma di illusione ottica che si ottiene osservando da una certa angolazione la copia in argilla del disegno fetale di Leonardo. Visto di fronte lo stampo del feto (figura A) si muta d’incanto nel suo calco (figura B). Si tratta di una falsa percezione nota come  Hollow-Face illusion (viso cavo) sovente sfruttato nei thriller per destare sconcerto nello spettatore, come nel caso di questa breve sequenza del film London Fields (vedi versione You Tube). 

 Non escludiamo che la genesi intrauterina della Hollow-Face illusion si correli al processo di rimozione del ‘doppio amniotico’ che affronteremo più avanti. Si tratterebbe di una sorta di censura psicologica che ci salvaguarda dal pericolo dissociativo, considerando che gli schizofrenici sono per lo più insensibili al ‘viso cavo’, capaci cioè di vedere nella sua oggettività il vuoto della maschera.

 


Nel saggio Il perturbante Sigmund Freud tratta l’eziologia del ‘doppio’ nella vita psichica dei primitivi e dei bambini derivandola da un fatto rimosso che si ripresenta alla stregua di qualcosa «di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Ci chiediamo: cosa c’è di più intimamente familiare del ‘doppio amniotico’ che un tempo ci replicava in tutto e per tutto?

 


Tuttavia, perché l’immagine del ‘doppio amniotico’ possa radicarsi nel profondo della psiche è necessario un meccanismo che lo fissi per sempre come l’imprinting. Si tratta di un dispositivo di apprendimento precoce per cui, nel caso degli uccelli, alla schiusa delle uova i  pulcini sono istintivamente attratti dalla prima immagine che vedono muoversi che normalmente coincide con quella dei genitori cui spetta il compito di orientare i piccoli nelle strategie di sopravvivenza.

 


Nel caso sia l’uomo a sostituirsi alla madre alla schiusa delle uova i pulcini riceveranno l’imprinting su di lui: fanno testo le spettacolari immagini del premio Nobel Konrad Lorenz che procede a piedi o in canoa con al seguito una teoria di anatroccoli imprintatisi su di lui (vedi versione You Tube). 

 


Un celebre esempio d’imprinting su modello umano è il documentario Il popolo migratore. Le straordinarie riprese degli uccelli in volo sono state possibili dato che alla schiusa delle uova i pulcini hanno ricevuto l’imprinting sul pilota di deltaplano che li ha più tardi guidati nel lungo viaggio migratorio (vedi versione You Tube).

 


Ma veniamo al dunque. L’ipotesi che avanziamo è che, diversamente da quanto normalmente accade nel resto dei vertebrati, nell’uomo l’imprinting sopraggiunge prematuramente nel sesto mese di gravidanza per impatto del feto sull’immagine stampo di se stesso o  'doppio amniotico'.

 


Indiziario a riguardo un tipico comportamento infantile che lo psicanalista francese Jaques Lacan chiama ‘Stadio dello specchio’. Un bambino dai 6 mesi ai 18 mesi che vede la sua immagine nello specchio dà segni di padronanza nei movimenti, tutto ciò in contraddizione con la percezione frammentata del corpo propria di questa fase di sviluppo. È verosimile, dunque, che l’immagine del piccolo riflessa nello specchio rinnovi in lui la percezione del proprio corpo unificato da poco sperimentata a contatto con il ‘doppio amniotico’ (vedi versione You Tube).

 


La tesi dello ‘Stadio della specchio’ come portato del vissuto intrauterino si concilia con l’ipotesi freudiana dell’esistenza di una fase anticipatrice del narcisismo primario. Scrive Freud: «Se le pulsioni autoerotiche sono assolutamente primordiali una nuova azione psichica, deve aggiungersi all’autoerotismo perché si produca il narcisismo». Ebbene, cosa c’è di più predisponente al narcisismo se non l’imprinting sull’immagine stampo di noi stessi?

 


È merito del padre della teoria degli archietipi Carl Gustav Jung aver intravisto nell’acqua l’oscuro specchio che poggia nel più profondo della psiche. Chi come Narciso vi si specchia – egli afferma -, rischia di diventare inconscio di se.

 


C’è da dire che l’irreversibilità dell’imprinting, almeno in base alla nostra ipotesi, ci espone al grave rischio di rimanere come Narciso ‘prigionieri’ della nostra stessa immagine. In altri termini, il fallimento della rimozione del ‘doppio amniotico’ potrebbe annoverarsi tra i fattori scatenanti la sindrome autistica: il vasto campionario di gesti compulsivi che la caratterizzano sembra infatti compensativo del vissuto affettivo-sensoriale sotto l’egida del ‘doppio amniotico’.

 


Questa breve dissertazione sull’imprinting umano ci porta a concludere che l’uomo è dominato da una pulsione di onnipotenza volta a colmare il vuoto esistenziale per la perdita dell’ancestrale mondo intrauterino fatto a nostra immagine e somiglianza. Una pulsione irriducibile che risale al vissuto prenatale alimentando l’insaziabile sete di potenza e sopraffazione che, come afferma l’etologo Danilo Mainardi, fanno dell’uomo l’unico essere che «uccide sistematicamente, in modo organizzato, in massa, individui della sua stessa specie».

 


Gli fa eco lo psicanalista Alfred Adler che sulla natura narcisista dell’uomo non ha dubbi. Egli scrive:

«che uno voglia essere un artista, o che voglia primeggiare nel suo mestiere, o che uno abbia un dialogo col suo Dio, o che parli male degli altri, o che consideri il suo dolore il maggiore di tutti cui tutti devono piegarsi, egli è condotto dal suo desiderio di superiorità, dal suo sentirsi simile a Dio».

 


Persino la natura eminentemente autoriflessiva e creativa della mente umana può ritenersi il sintomo dell’auto-imprinting, avvalorando l’osservazione dell’archeologo Paul Jordan secondo cui, fin dagli albori, l’uomo interpreta il mondo come qualcosa in cui ‘riflettersi’, un mondo che gli appare simile a una sala degli specchi in cui la coscienza non può fare altro che pensare a se stessa.