domenica 17 gennaio 2021

Imprinting Umano

 

     IMPRINTING UMANO

                                            di Luigi Pentasuglia


Uno dei temi più controversi dell’etologia riguarda l’imprinting umano[1]. Sulla presenza di una fase sensibile imprinante nell’uomo i pareri degli esperti sono talmente discordanti da far finanche dubitare dell’esistenza stessa del fenomeno nella nostra specie. Ad accoglie la sfida è il musicologo Luigi Pentasuglia che, nel saggio I volti della Gioconda, facendo leva su un’intuizione di Leonardo da Vinci, con piglio eurustico avanza l’ipotesi dello scatenamento del tutto anomalo dell’imprinting umano durante il sesto mese di vita intreuterina[2].

 

Il grande balzo dell’umanità

Punto di partenza è lo studio dei fossili. L'uomo moderno è il risultato dell'evoluzione dell'Homo erectus culminata nell’uomo di Cro-Magnon (Homo sapiens sapiens), l’artefice delle straordinarie pitture rupestri di Lascaux (Francia sud-occidentale) risalenti a circa 20.000 anni fa. Lo stile oltremodo progredito di questi dipinti ha fatto dire al biologo evolutivo Richard Dawkins che è come se i frutti dell’ingegno moderno, dalla Cappella Sistina alla relatività ristretta, dalle Variazioni Goldberg alla congettura di Goldbach, fossero contemporanei delle pitture di Lascaux[3]. Dal canto suo, l’archeologo Paul Jordan osserva che, da quel momento in poi, la mente umana ha iniziato a interpretare il mondo che lo circondava alla stregua di qualcosa in cui ‘riflettersi’: siamo, a suo dire, agli albori dell’auto-coscienza, paragonata a una filosofica sala degli specchi in cui la coscienza non può fare altro che pensare a se stessa[4].

 

La teoria acquatica

Una traccia indiziaria sugli esordi dell'auto-coscienza umana l’offre il best seller La scimmia nuda dello zoologo inglese Desmond Morris che esordisce con una questione cruciale: perché delle 193 specie di scimmie viventi l’unica a essere priva di pelliccia è proprio la nostra? Tra le varie teorie, quella che più affascina Morris è l’acquatica, secondo cui l’evoluzione dell’uomo sarebbe transitata di specie in specie, dall’arboricola alla cacciatrice all’acquatica - con la conseguente perdita della pelliccia per esigenze idrodinamiche - e infine nuovamente alla terrestre. Lo prova, tra l’altro, la particolare sensibilità delle nostre mani: «anche una mano piuttosto rozza – egli afferma - riesce dopo tutto a tenere un bastone o una pietra, ma per sentire il cibo nell'acqua occorre una mano fine e sensibile»[5].

 

La vernice caseosa

A corroborare la teoria acquatica concorre inoltre la circostanza che l'uomo è l'unico primate che, al pari delle balene e delle foche, sia dotato di uno spesso strato di grasso sottocutaneo idrofobico. Tra i costituenti di tale grasso figura lo squalene, una sostanza oleosa presente nella vernice caseosa: è questo un composto lipidico prodotto esclusivamente dalle ghiandole sebacee del feto umano per proteggerlo dall'azione macerante del liquido amniotico.  Ed è proprio la specificità umana della vernice caseosa che la candida a potenziale fattore scatenante dell'imprinting umano in fase prenatale. Vediamo come.

 

Il ‘doppio amniotico’

Bisogna innanzi tutto considerare che il feto vive immerso in un vero e proprio bagno di stimolazioni, bombardato da miriadi di miriadi d'impulsi provenienti da ogni parte dell’ambiente liquido intrauterino: borborigmi dell’intestino materno, flusso e riflusso respiratorio della madre, martellamento incessante dei suoi battiti cardiaci e, infine, i rumori che il feto stesso provoca nel liquido amniotico.  Si produce così un equilibrio pressorio tra la massa corporea fetale e gli stimoli esterni, tale che la struttura esteriore del corpo sia percepita dal feto così com’è. Per avere un'idea di come il feto percepisce il suo habitat, immaginiamo di dividere la forma sferica dell’utero in due parti simmetriche: le due porzioni di liquido amniotico contenute nei due emisferi (che penseremo solidificate) riporteranno le impronte dei lati destro e sinistro del feto stesso. Possiamo quindi asserire che lo spazio interno al liquido amniotico occupato dal feto coincide con il suo stesso 'stampo' o 'doppio amniotico', che lo duplica plasticamente in ogni sua ben che minima movenza.

 


L’imprinting intrauterino

Sappiamo che prima del sesto mese l’apparato nervoso fetale preposto alla stabilizzazione dello schema corporeo è ormai maturo. Ciò consente al feto di stabilire un controllo su tutto il corpo, dai movimenti corporei fino alle sollecitazioni vibratorie provenienti dall’habitat intrauterino percepito soprattutto a livello epidermico[6]. Ed è a questo punto che, l’interposizione della vernice caseosa tra il feto e lo stampo amniotico è in grado innescare il dispositivo dell’imprinting, decretando la fine dello stato fusionale tra il feto e l’habitat liquido che lo contiene, per quindi inaugurare un nuovo corso esistenziale fondato sulla distinzione fisica tra questi due. In ultima analisi, l’imprinting avverrebbe nell'uomo anticipatamente, con modalità tattile, durante il sesto mese di gravidanza, per ‘impatto’ del feto sul 'doppio amniotico', l’altro da sé corrispondente all'immagine in 'negativo' di se stesso impressa nel liquido amniotico.

 

Indizi probatori

Si possono considerare indizi dell’anticipato imprinting umano alcuni comportamenti neonatali cui, ancora oggi, la neurospichiatria infantile non ha saputo dare una risposta convincente. Si pensi, ad esempio, ai bambini di appena tre settimane, che sono capaci di imitare bene un adulto che tira fuori la lingua o spalanca la bocca[7], oppure ai neonati di soli due giorni, che riescono a imitare le espressioni mimiche di un adulto, che si rivolge loro sorridendo o aggrottando le sopracciglia[8]. La domanda è: come fanno i bambini a sapere che la faccia dell'adulto che vedono somiglia effettivamente alla loro, che non hanno mai visto e che hanno potuto sperimentare soltanto per via tattile? Non si può quindi escludere che simili comportamenti rievochino nel neonato il trascorso sensoriale di tipo propriocettivo vissuto in simbiosi con il 'doppio amniotico' nel quale, un tempo, si rifletteva plasticamente, essendo a sua volta replicato nei gesti, ivi compresa la mimica facciale.

 

Lo ‘stadio dello specchio’

All’imprinting intrauterino andrebbe altresì ascritto un tipico comportamento infantile messo in luce dallo psicanalista francese Jacques Lacan in un suo celebre contributo intitolato Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io. L'autore parla dello strano sentimento di esultanza e padronanza di sé che il bambino dai sei agli otto mesi prova nel vedersi riflesso in uno specchio come un corpo unificato. Si tratta, in verità, di una percezione contraddetta dall’inadeguatezza motoria propria di quel periodo di sviluppo: «il piccolo d’uomo - afferma Lacan - a un’età in cui per un breve periodo è superato nell’intelligenza strumentale dallo scimpanzé, già riconosce però nello specchio la propria immagine come tale»[9]. È interessante osservare che lo studioso giustifica lo ‘stadio dello specchio’, sia ricorrendo al concetto di neotenia che produce nel bambino il miraggio della propria unità corporea, sia prospettando l'entrata in funzione dei meccanismi istintivi che presiedono appunto l’imprinting[10].   

 

Imprinting e autismo

Il costante feedback sensoriale tra il feto e il ‘doppio amniotico’ si traduce in una tautologia percettiva, una sorta di corto circuito simmetrico tra gli stimoli del corpo e quelli provenienti dall'esterno, tale da fornire una solida sponda scientifica alla tesi di Jordan sulla genesi dell’autocoscienza fondata sull’assioma per cui la coscienza non può fare altro che pensare a se stessa[11]. Una diagnosi, questa, che calza altrettanto bene per l’empatia, il sentimento descritto come la capacità di andare verso il mondo dell’altro portando l'altro nel proprio mondo. Il fatto che l’empatia difetti negli autistici, apre la strada all’eventualità che tra le cause della malattia possa annoverarsi la mancata rimozione dell'imprinting intrauterino[12]. In altri termini, come Narciso rimane ‘prigioniero’ della propria immagine riflessa nello stagno, allo stesso modo gli autistici sono ‘prigionieri’ dell’immagine di se stessi riflessa nel liquido amniotico responsabile dell’imprinting: un’immagine inconscia che i piccoli psicotici tentano in ogni modo di rimpiazzare ricorrendo a stereotipie motorie ripetitive atte a soddisfare il trascorso sensoriale sperimentato sotto l’egida del ‘doppio amniotico’[13]. Del resto, lo stesso Freud aveva postulato l'esistenza di una fase autistica precoce anticipatrice del narcisismo primario: «Se le pulsioni autoerotiche sono assolutamente primordiali - egli afferma – qualcosa, una nuova azione psichica, deve aggiungersi all’autoerotismo perché si produca il narcisismo»[14]. Non potrebbe pertanto questa nuova azione psichica addebitarsi all'imprinting prenatale in cui l'immagine imprintante coincide con quella dell'imprintato?[15]

 

La caverna leonardesca

In età matura Leonardo sviluppò un’intima ossessione per i feti. È quanto emerge tra le righe da un celebre passo del Trattato della Pittura:

 

«Tirato dalla mia voglia di vedere le varie forme fatte dalla artifiziosa natura, ragiratomi infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una caverna. Piegato le mie rene in arco e ferma la stanca mano sopra il ginocchio feci tenebra alle abbassate e chiuse ciglia, e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa, subito si destarono in me due cose, paura e desiderio: paura per la oscura spilonca; desiderio, per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa».

 

Se da un lato la postura fetale immaginata da Leonardo fa della caverna la metafora dell’utero materno, l’espressione ragiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli rimanda invece alla sensazione epidermica delle vibrazioni filtrate dal ‘doppio amniotico’ che forgiano la superficie corporea fetale alla stregua del suo stampo[16]. Per avere un’idea di stampo e di calco fetali, si osservi la versione tridimensionale in argilla di un famoso disegno fetale leonardesco[17] che – guarda caso! - rispecchia la posizione fetale assunta da Leonardo nella caverna. Delle due porzioni della placenta ‘esplosa’, quella di sinistra riporta l’impronta o ‘doppio amniotico’ del feto.

 


L’archetipo dell’Anima

Della dimestichezza di Leonardo con l’alchemico Rebis, simbolo dell’unione degli opposti, testimonia un bozzetto allegorico che rivisita il mitico essere in un’ottica ontogenetica[18]. Si tratta del disegno dell’androgino conservato alla Christ Church di Oxford che, come vedremo, simboleggia la coincidenza formale tra il feto e il ‘doppio amtiotico’. Leonardo  parte dal presupposto che:

 

1) in quanto contenuto nel liquido amniotico, al feto si addice la valenza simbolica ‘maschile’;

2) in quanto contenitore del feto, al ‘doppio amniotico’ si addice la valenza simbolica ‘femminile’.

 

Il giovane allo specchio metaforizza dunque il feto riflesso nel ‘doppio amniotico’, così come l’asta che impugna con l’altra mano all’altezza dell’ombelico metaforizza il cordone ombelicale (= principio maschile) che, a sua volta simboleggia l’organo genitale maschile che ‘penetra’ il ‘doppio amniotico’ (= principio femminile). L’idea di coincidenza oppositorum ‘maschio-femmina’ è emblematicamente rappresentata, al centro del disegno, dall’androgino bifronte, o alter ego del giovane. Mentre il profilo di sinistra  è di un vecchio barbuto che agita un ‘serpente’ (alias il cordone ombelicale[19]), il profilo di sinistra è invece di una donna che lascia traboccare dell'acqua da un recipiente evocando la cosiddetta ‘rottura delle acque’. Ci troviamo, quindi, alla fine del periodo nirvanico intrauterino segnalato, da un lato dall’uomo alle spalle del giovane colto nell’atto di accoltellarlo, dall’altro dalla colomba - alias lo ‘Spirito Santo’ – che volteggia sul capo dell'androgino, parodiatata dal rapace in picchiata sopra il diavolo che aizza due cani contro i simboli dell'androgino: l'acqua e il serpente.

 


Epilogo gnosticheggiante

L’allegoria leonardesca presenta delle sorprendenti analogie con la dottrina gnostica sethiana che ci è stata tramanda nella Refutatio dall’eresiologo romano Ippolito (III secolo). Questa dottrina postula tre principi cosmogonici: la Luce, la Tenebra con in mezzo il Pneuma (lo Spirito). Dalle infinite collisioni dei tre principi, dicono i Sethiani, nascono delle ‘impronte’, la prima delle quali ha la forma di un enorme ventre femminile con al centro l’omphalos (ombelico). Va allo storico delle religioni Giovanni Casadio il merito di aver intravisto nel termine greco omphalos (nella fattispecie il cordone ombelicale che si presenta attorcigliato come un serpente al momento della nascita) l’eufemismo di ‘fallo’ (om-phallos) che feconda la matrice femminile (l’Acqua Tenebrosa) simile a un vento tremendo a forma di serpente[20]. In ultima analisi, una vera e propria prefigurazione ante litteram della teoria sull’imprinting intrauterino![21] Ci era arrivato vicino lo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung che, nell’acqua intravede l’oscuro specchio che poggia nel più profondo della psiche. L’acqua, egli afferma, è il simbolo più corrente dell’inconscio, e chi vi si specchia, come fece Narciso, rischia di diventare inconscio di se stesso: «è questo il pericolo primigenio oggetto di terrore per il primitivo che si trova ancora così vicino a questo pleroma. Perciò gli sforzi dell’umanità sono stati interamente volti al consolidamento della coscienza mediante i riti, le représentations collectives, i dogmi»[22].

 

Note

[1] Secondo la definizione classica data dai pionieri Spalding e Lorenz, l’imprinting rientra tra i dispositivi istintivi capaci di innescare un meccanismo irreversibile nell’ambito di una fascia temporale (fase sensibile) variabile a seconda della specie: se negli uccelli nidifughi che hanno un buon grado di autosufficienza poco dopo la nascita coincide con le prime ore dopo la nascita, negli uccelli nidicoli e per molti mammiferi può invece protrarsi fino a qualche settimana. Per Mario Manusia l’eventuale presenza di periodi sensibili nell’uomo, i giudizi degli studiosi non sono affatto concordi. Se da un lato la psicoanalisi freudiana pone l’accento su alcune fasi dello sviluppo infantile fino a cinque-sei anni d’età, dall’altro I. Johannesson e A. Ambrose insistono invece sull’sufficienza di prove per affermare l’esistenza una fase sensibile nella nostra specie (Cfr. Mario Manusia, Istinto e apprendimento negli animali, op. cit., p. 184).

[2] Luigi Pentasuglia, I volti della Gioconda, Ed. Basileus, Matera 2016, ISBN 9788890224591.

[3] Cfr. Richard Dawkins, Il racconto dell’antenato, Mondadori, Milano 2006, p. 32. Titolo originale: The Ancestor’s Tale.

[4] La qualità 'auto-riflessiva' del pensiero umano primitivo è per Jordan emblematicamente espressa da due pitture rupestri del Paleolitico superiore: una nella grotta di Cahuvet, in Francia, dove è rappresentato un essere per metà uomo e per metà bisonte; l’altra, in Germania, nella grotta di Höhlenstein-Stadel, dove troviamo invece un uomo con la testa di leone (cfr. Paul Jordan, Neandertal. L’origine dell’uomo, Newton & Compton, Roma 2001, p. 257).

[5] Cfr. Desmond Morris, La scimmia nuda: studio zoologico sull’animale uomo, Bompiani, Milano 2004. Titolo originale: A zoologist’s of the human animal.

[6] Già al quinto mese di gravidanza la parte più arcaica dell’orecchio interno fetale, denominata labirinto vestibolare, è in grado di stabilire un controllo su tutto il corpo, dai movimenti corporei fino alle sollecitazioni vibratorie provenienti dall’habitat intrauterino, che il feto percepisce a livello epidermico (cfr. Alfred Tomatis, L'orecchio e la voce, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 132 e seg. Titolo originale: L'oreille et la voix).

[7]A.N. Meltzoff, M.K. Moore, Imitation of facial and manual gestures by human neonates, ‘Science’, 1977; O. Maratos, The origin and development of imitation in the firts six months of life, ‘Unpublished doctoral dissertation’, University of Geneva, 1973; I.C. Uzgiris, Patterns of vocal and gestural imitation in infans. In L.J. Stone, H.T. Smithand L.BMurphy (Eds.), The competent infant, London: Tavistock, 1974; C. Trevarthan, Descriptiveanalyses of infant communicative behavior. In H.R. Schaffer (Ed.), Studies in mother-infant interaction. New York: Academic Press, 1977.

[8] T.M. Field, R. Woodson, R. Greenberg, and D. Cohen, Discrimination and imitation of facial expressions by neonates, “Science”, 218, 179-81, 1982.

[9] Cfr. Jaques Lacan, Scritti, (a cura di Giacomo Contri), Einaudi, Torino 1974, pp.87 e seg. Titolo originale: Ecrits.

[10] «La maturazione della gonade nel piccione femmina - afferma Lacan - ha come condizione necessaria la vista di un congenere […] l’effetto è ottenuto mettendo semplicemente a portata dell’individuo il campo di riflessione di uno specchio. Allo stesso modo il passaggio, nella discendenza, della cavalletta del deserto dalla forma solitaria alla forma gregaria si ottiene esponendo l’individuo, in un certo stadio, all’azione esclusivamente visiva di un’immagine similare, a condizione che sia animata da movimenti di uno stile sufficientemente vicino a quelli della sua specie» (L. Margulis, D. Sagan, La danza misteriosa, Mondatori-De Agostinis, Milano 1995, p. 89 e 90).

[11] Un modello semplificativo di tale meccanismo è quello suggerito da D. R. Hofstadter che paragona l'autocoscienza umana al processo di 'video-retroazione' che si verifica quando una telecamera viene posta di fronte a uno schermo televisivo ad essa collegata; una condizione, questa, che produce una sequenza di schermi sempre più piccoli, posti uno dentro l'altro (cfr. Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante: una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll / Douglas R. Hofstadter, Adelphi, Milano 2011).

[12] Nel processo psicologico dell’empatia un ruolo determinante è riservato ai neuroni specchio, i regolatori del grado d'immedesimazione nelle azioni altrui scoperti nel 1991 dall'équipe dell'università di Parma, guidata da Giacomo Rizzolatti. Il deficit di empatia nei soggetti autistici è stato dimostrato dalla neuroscienziata statunitense Mirella Dapretto dell'università di Los Angeles. Applicando la tecnica della risonanza magnetica, la studiosa ha posto dieci piccoli psicotici di fronte a una serie di fotografie di volti arrabbiati, impauriti, tristi e depressi. Il risultato? I soggetti non hanno mostrato alcuna reazione di tipo empatico. Da qui l'infausta diagnosi: un deficit del sistema dei neuroni specchio (Cfr. Dapretto, M., Davies, M. S., PfeiferJ. H., Scott, A. A., Sigman, M., Bookheimer, S. Y., e al. (2005), Understanding emotions in others: Mirror neuron dysfunction in children with autism spectrum disordersNature Neuroscience, 9, 28–30)

[13] Come afferma Frances Tustin, le persone e gli oggetti esterni sono dagli autistici sperimentati «come un’estensione dell’attività corporea [tanto che] vedere e udire sono spesso sperimentati in modo tattile, come un essere toccati dall’oggetto» (Frances Tustin, Stati autistici nei bambini, Armando editore, 1981, p. 19 e 110. Titolo originale: Autistic states in children).

[14] Ibidem, p. 14.

[15] A corollario della breve indagine euristica sull'imprinting umano, riteniamo utile segnalare un proficuo campo d'indagine. Stupisce che la sindrome autistica mieta tra le sue vittime prevalentemente soggetti di sesso maschile con un tasso d'incidenza di 3 o 4 volte superiore rispetto al sesso femmine, tasso che può addirittura sfiorare le 20 volte nella variante di Asperger[15]. Il sospetto è che la causa possa annidarsi nella maggior secrezione di vernice caseosa nei feti maschi rispetto alle femmine. In altri termini, l'eccesso di vernice caseosa nei feti maschi andrebbe ad accentuare l'isolamento dagli stimoli extrauterini che, rappresentando l'unica vera variabile alle sollecitazioni sensoriali dell'habitat amniotico, sono perciò precursori dei fenomeni transizionali, indispensabili all'allentamento del legame madre-figlio e allo sviluppo psicologico dell'altro da Sé.

[16] Il brano in questione termina con una specie di indovinello. Serge Bramly ha infatti evidenziato alla fine del passo una specie di 6 (Serge Bramly, Leonardo da Vinci, Fabbri editore, Milano 2000, p. 75. Titolo originale: Léonard de Vinci). Un numero, il ‘6’, gravido d’implicazioni gnostiche, tanto più se riferito all’episodio evangelico lucano della Visitazione incentrato sulla visita della Vergine Maria all’anziana sua parente Elisabetta al sesto mese di gravidanza di Giovanni Battista. Si avalla questa tesi nel già citato saggio I volti della Gioconda di Luigi Pentasuglia, in cui sono decriptate le parafrasi artistiche leonardesche della Visitazione di San Luca (1:39-56): tra queste la Vergine delle rocce (Louvre) e il Gruppo di sant’Anna (Louvre).

[17] Foglio 18 dei ‘Quaderni di anatomia’ (Castello Reale di Windsor). La versione in terracotta del disegno leonardesco è di Michele Pentasuglia.

[18] Per gli alchimisti medievali il Rebis è l’essere ermafrodito sovente associato a Cristo e alla ‘Pietra filosofale’, la cui valenza archetipica non è sfuggita a un ‘aspirante gnostico’ d’eccellenza del calibro di Carl Gustav Jung che non fa mistero del fatto che: «in tempi più recenti nella mistica cattolica abbiamo sentito parlare di androginia di Cristo» (Cfr. Carl Gustav JungGli archetipi e l'inconscio collettivo, Boringhieri, Torino 1980, p. 167).

[19] L’associazione del vecchio al feto si deve al fatto che, a partire dal quinto mese, questi si ricopre di lanugo, una folta peluria che gli conferisce appunto l’aspetto vecchieggiante.

[20] Giovanni Casadio, Vie gnostiche all’immortalità, Morcelliana, Brescia 1997, p. 9.

[21] I tre principi LuceTenebra e Pneuma si prestanto rispettivamente a simboleggiare il feto, il liquido amniotico e il dispositivo istintivo dell’imprinting.

[22] C. G. Jung, Aion: ricerche sul simbolismo del sé, op. cit., p. 15. Titolo originale: Aion:Beiträge zur Symbolik des Selbst.

 


Architarra

  ARCHITARRA

di Luigi Pentasuglia

  

  Il termine architarra - un neologismo che ingloba i termini 'archi' e 'chitarra' – è un'ideazione del musicologo Luigi Pentasuglia che l'ha introdotto per la prima volta in occasione della pubblicazione del metodo Il segreto di Paganini: tecnica comparata per violino e architarra (Diastema, Treviso 1997).  Si tratta di uno strumento che armonizza le caratteristiche organologiche della chitarra classica con l'accordatura per quinte degli strumenti ad arco. In ultima analisi, l'architarra è una piccola chitarra classica accordata per quinte come gli strumenti ad arco, munita di manico tastato e diapason 48 cm max[1]. In alternativa è possibile optare per il guitalele (diapason 43 cm c.a.), ovvero per la chitarra classica ½ (diapason 55 cm ca)[2]. L’architarra si accorda un'ottava sotto il violino, disponendo le seguenti corde centralmente alla tastiera:


·                     - VI corda della chitarra classica innalzata una terza minore: da Mi a Sol

·                     -    V corda della chitarra classica innalzata una quarta giusta: da La a Re

·                     -    III corda della chitarra classica innalzata una seconda maggiore da Sol a La

·                     -   II corda della chitarra classica innalzata una quarta giusta: da Si a Mi[3]



Come si suona

    L'architarra si suona come la normale chitarra classica: poggiato lo strumento sulla coscia sinistra, il piano di seduta deve garantire il giusto allineamento della testa al busto. Trattandosi di un strumento di dimensioni ridotte, è indispensabile l’uso del classico poggiapiede o del supporto da gamba o, se necessario, di entrambi. A fronte dei numerosi metodi per chitarra classica, corredati d’immagini esplicative sia della corretta postura delle mani che della modalità di articolazione delle dita, consiglio vivamente di accostarsi allo strumento sotto la supervisione di un qualificato insegnante di chitarra classica, che potrà, sul nascere, correggere i difetti d'impostazione e posturali, ovvero elargire consigli su aspetti specifici della prassi esecutiva chitarristica, come i legati tecnici e il barré.

 

I prodromi

    L'ibridazione, per così dire, tra strumenti a pizzico e ad arco muove i primi passi nel Medioevo con il fiedel, il precursore sia della vihuela che delle viole rinascimentali[4]. L'osmosi tra le due tipologie strumentali tocca l'apice nel Barocco con le trascrizioni autografe per liuto bachiane di opere destinate originariamente al violino e al violoncello[5]. È tuttavia nella prima metà del Settecento che assistiamo a un vero e proprio 'contagio' tra le due prassi esecutive: paradigmatico il caso delle Prime Lezioni Per Chitarra di Federico Moretti, che assimila le posizioni della chitarra a quelle del violoncello[6]. Un input destinato di lì a poco a sfociare in una sorta di apoteosi fusionale ‘stilistico-esecutiva’ tra chitarra e strumenti ad arco, che vede protagonisti una folta schiera di eccezionali compositori-interpreti del calibro di Sor, Giuliani, Legnani, Carulli, Molino, Zani de Ferranti, Magnien e, manco a dirlo, Paganini, che più di tutti seppe convogliare sul violino le personali competenze di chitarrista[7]. Ne aveva compreso appieno la portata Hector Berlioz che, in un celebre passo delle Memorie, così biasimava i violinisti dell’epoca: «passi ed arpeggi perfettamente eseguibili, dal momento che i chitarristi li eseguono [sul violino], sono dai violinisti dichiarati ineseguibili […] Il poco che i nostri giovani violinisti sanno in proposito, l'hanno imparato da soli dopo l'apparizione di Paganini»[8].


Il segreto di Paganini

    Un espediente ricorrente della narrazione paganiniana è la ‘scordatura’ del violino durante le improvvisazioni[9]. All’immane ricalcolo dei rapporti tra le corde richiesto in simili frangenti, opponiamo la tesi di un Paganini illusionista: accordando parzialmente il violino come la chitarra era in grado di replicare passaggi originariamente concepiti sulla chitarra senza alterare la diteggiatura della mano sinistra. Del resto, la consuetudine del grande violinista genovese d’innalzare la IV corda da Sol a Si bemolle gli consentiva, all’occorrenza, di disporre del rapporto di terza maggiore tra la IV e la III corda (Si bemolle-Re): ossia il rapporto tra la III e la II corda della chitarra (Sol-Si); gli bastava abbassare di un tono la II corda, da La a Sol, per disporre della successione intervallare di quarta giusta tra III e II corda (Re-Sol): ossia il rapporto tra la II e la I corda della chitarra (Si-Mi). Quanto all’inconveniente dell’intervallo ‘superstite’ di sesta tra la II e la I corda (Sol-Mi), era da lui superato istrionicamente con la boutade dell’improvvisa rottura del cantino. Se per un verso dobbiamo ai cronisti testimoni oculari i resoconti sulla ‘scordatura’ del violino, per altro lo stesso procedimento era di fatto applicato da Paganini alle composizioni per chitarra: è il caso del Minuetto n. 20 (Edizioni Zimmermann) che prevede l’accordatura della chitarra in viola d’amore, con la VI, la V e la I corda abbassati di un tono. Un caso all’epoca tutt’altro che isolato, anzi emblematicamente avallato dall’invenzione dell'arpeggione, una sorta di violoncello con tastiera e accordatura della chitarra, reso celebre dalla Sonata Arpeggione (D. 821) di Franz Schubert.




Una didattica comparata

    Non c’è dubbio che la formazione chitarristica di Paganini sia la precondizione delle straordinarie potenzialità virtuosistiche della sua mano sinistra. È quanto trapela dalle sue dichiarazioni di usare il violino solo nei concerti, mentre per lo studio si sarebbe servito di un violino di grandi dimensioni per acquisire elasticità e forza nelle dita. Nulla di più improbabile: un violino di grandi dimensioni non è forse una viola? Paradossalmente è proprio l’attrazione per le grandi viole a tradire il retaggio chitarristico paganiniano. Lo si evince dalla lettera del violinista inglese Charles Severn che dichiara di aver suonato a Londra «allo stesso doppio leggìo con lui, quando eseguì le sue variazioni per il ‘tenor’, uno strumento così grande che il suo braccio era tutto steso diritto». Un’affermazione ripresa da Maurice W. Riley che, nella sua Storia della viola, affibbia alla viola ‘tenor’ di Paganini un diapason di almeno 45,7 cm[10]. In altri termini, all’incirca lo stesso diapason da noi previsto per l’architarra. Con lo studio dell’architarra s’intende, infatti, rinnovare una propedeutica strumentale comparata da troppo tempo negata – se non proprio rinnegata! – dagli strumentisti ad arco, succubi, loro malgrado, di un miopismo metodologico romanticamente fuorviato dall’idea di una matrice ‘diabolica’ del virtuosismo paganiniano!


La mente olografica

    Lo studio dell’architarra favorisce l’azione sinergica di due distinte disposizioni sensoriali nell’approccio esecutivo: 1) quella visivo-motoria, propria dei chitarristi, abituati prima a guardare la posizione delle dita sulla tastiera e poi ad ascoltare le note eseguite; 2) quella uditivo-tattile, propria degli strumentisti ad arco che, diversamente, prima intonano mentalmente le note e poi le eseguono sulla base della percezione tattile delle dita senza l'ausilio della vista. Più che di antiteticità nel metodo utilizzato sarebbe più consono parlare di 'complementarietà' tra queste due disposizioni. Un avallo ci è offerto dalla teoria dell'apprendimento del neurofisiologo austriaco Karl Pribram (1919-2015) secondo cui il cervello processa i dati sensoriali alla stregua di ologrammi, immagini fotografiche tridimensionali prodotte dall'interferenza di pattern d'onda emessi da un oggetto, convogliate da un raggio laser[11]. Estendendo il concetto allo strumentista ad arco, che si esercita in parallelo sull'architarra, di conseguenza il suo cervello amalgamerà le percezioni 'uditivo/tattili' afferenti la propria competenza di strumentista ad arco, alle percezioni 'visivo/motorie' afferenti la propria competenza di 'chitarrista'. Il risultato: una qualità, si fa per dire, 'tridimensionale' dell'oggetto di studio di cui, appunto, l’ologramma funge da metafora.

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Note

1.   Il diapason è la distanza dei due punti d'appoggio delle corde disposti tra il capotasto e le sellette del ponticello.

2.  Il diapason più esteso della chitarra ½ può richiedere l'uso del 'capotasto' meccanico per chitarra classica.

3.  La stessa accordatura è valida per i violisti che, leggendo in chiave di contralto, realizzeranno uno scarto d'intonazione una quinta sopra l'accordatura dello strumento, ovvero una quarta sotto quella effettiva.

4.  G. Tintori, Gli strumenti musicali, UTET, Torino, 1971, Tomo II, p. 692.

5. Paolo Chierici, Le opere per liuto di Bach, 'Il Fronimo', luglio 1980, n. 32, p. 26; Philip J. Bone, The Guitar and Mandolin (Second Edition, enlarged), Schott & Co. Ltd., Londra 1954, p. 136; Bruno Tonazzi, L'arte di suonare la chitarra o cetra di Francesco Geminiani, in “Il Fronimo”, ottobre 1972, n.1, p. 13.

6.  Federico Moretti, Prime Lezioni Per Chitarra, ms., s.l., s.d., Biblioteca del Conservatorio, Milano; Federico Moretti, Prinicpj per la chitarra a sei corde, Napoli 1804; Franco Poselli, Federico Moretti e il suo ruolo nella storia della chitarra, 'Il Fronimo', luglio 1973, n. 4, p. 13.

7.  Cenni Biografici intorno a Mauro Giuliano, comunicati per la parte storica dal pregevole Sig. Filippo Isnardi, peritissimo della scienza musicale.'L'Omnibus', foglio periodico IV, 3 (sabato 30 aprile 1836; F. Heck, Giuliani in Italia, 'Il Fronimo', luglio 1974, n. 8, p. 16; Brian Jeffery, L'attività concertistica di Fernando Sor, 'Il Fronimo', gennaio 1974, n° 6, p. 6; Dell'Ara, Ferdinando Carulli, 'Il Fronimo', luglio 1979, n. 28, p. 7; A. Codignola, Paganini intimo, Genova 1925, p. 488; Cenni biografici intorno a Mauro Giuliani comunicati per la parte storica dal pregevole Signor: Filippo Isnardi, peritissimo della Scienza Musicale, periodico napoletano 'L'Omnibus', 30 aprile 1836; Danilo Prefumo, Paganini e la chitarra, 'Il Fronimo', aprile 1978, n. 23; Danilo Prefumo, L'attività concertistica di Luigi Legnani nei resoconti dei giornali dell'epoca, 'Il Fronimo', 1982, n. 41, p. 9.

8.  The Memoirs of Hector Berlioz, trad. di David Cairns, London, V. Gollancz, 1969, p. 224; Hector Berlioz, Memorie, vol. 2, Secondo viaggio in Germania, Lettera V; Mario Dell'Ara, Hector Berlioz, 'Il Fronimo', gennaio 1977, n. 18, p. 11; Mario Dall'Ara, Hector Berlioz Il signore che suona la chitarra francese, 'Il Fronimo”, gennaio 1977, n. 18, p. 11; Danilo Prefumo, Paganini e la chitarra, 'Il Fronimo', aprile 1978, n. 23.

9.  Arnaldo Bonaventura, Niccolò Paganini, Formiggini, Genova, 1915, p. 36; Arnaldo Bonaventura, Gli autografi musicali di N. Paganini, 'La bibliofilia', anno XII, dispensa 1a, aprile 1910, Leo Olschki Firenze; Bruno Tonazzi, Gli interessi chitarristici di Paganini, 'Il Fronimo”, aprile 1982, n. 39, p. 8.

10.   Maurice W. Riley, Storia della viola, Ed. Sansoni, Firenze 1983, p. 244.

11.   Karl H. Pribram, I linguaggi del cervello, Franco Angeli, Milano 1976, p. 195; Stanislav Grof, La mente olotropica, Ed. Red, Como 1996, p. 15.